mercoledì 16 dicembre 2015

SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO, TRAGEDIA ENDOGONIDIA



 LA TRAGEDIA ENDOGONIDIA DELLA SOCÌETAS RAFFAELLO SANZIO  
Maria Cristina Reggio (Estratto dal saggio pubblicato in Drammaturgie sonore,  Bulzoni editore, 2013)


La Tragedia Endogonidia è un ciclo drammatico realizzato dalla compagnia Socìetas Raffaello Sanzio in un periodo di tempo compreso tra l’inizio del 2002 e il 2004, che riuniva in una sola opera undici spettacoli, realizzati in successione e denominati Episodi, ciascuno dei quali ha avuto origine e luogo in una diversa città europea. La Socìetas  è una compagnia teatrale che  si è costituita nel 1981 dall’incontro tra Romeo Castellucci (1960), Chiara Guidi (1960) e Claudia Castellucci (1958) e ha base a Cesena, in Emilia Romagna, dove lavora, dal 1992, presso il Teatro Comandini. A partire da Voyage au bout de la nuit (1999) e da Il Combattimento (2000) ha avviato una collaborazione con il compositore statunitense Scott Gibbons, che conferisce una forte presenza sonora all’impianto scenico mediante l’uso di diverse tecnologie. (Per una ricognizione generale sul lavoro della Socìetas precedente alla Tragedia Endogonidia cfr. A. Mango, G. Bartolucci, L. Mango, F. Tiezzi, T. Colusso, S. Paradiso, S.R.S., Il teatro Iconoclasta, Edizioni Essegi, Ravenna 1989; C. Castellucci, R. Castellucci, Il teatro della Socìetas Raffello Sanzio, Ubulibri, Milano 1992; R. Castellucci, C. Guidi, C. Castellucci, Epopea della polvere, Ubulibri, Milano 2001; Socìetas Raffaello Sanzio, R. Castellucci, Epitaph, Ubulibri, Milano 2003).

Ciascuno degli Episodi è contrassegnato dalla lettera iniziale della città che lo accoglie, seguita da un numero progressivo. Le città toccate, in ordine di successione, sono: Cesena, Avignone, Berlino, Bruxelles, Bergen, Parigi, Roma, Strasburgo, Londra, Marsiglia, e ancora Cesena. Alcuni singoli Episodi hanno dato luogo a brevi azioni teatrali denominate Crescite, con le quali gli autori si sono riproposti di ripensare o sviluppare singole figure o aspetti dell’Episodio stesso. (Per una ricognizione sulla Tragedia Endogonidia, cfr. C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, J. Kelleher, N. Ridout, The Theatre of the Socìetas Raffaello Sanzio, Routledge, Oxon, U.K. 2007; V. Valentini, B. Marranca, Universale, il più semplice posto possibile. Intervista a Romeo Castellucci, in «Biblioteca teatrale», n. 74-76, aprile-dicembre, Roma 2005, pp. 243-253; E. Pitozzi, A. Sacchi, Itinera, Actes Sud, 2008).



Attraverso quest’opera complessa i suoi autori hanno voluto mettere alla prova il sistema della rappresentazione teatrale come luogo nel quale ripensare la tragedia, ipotizzando un teatro che fosse ancora portatore di un nuovo significato definibile come tragico, proprio nell’epoca contemporanea in cui si è presa distanza da una concezione del mondo fondata sul mito, sul destino e sulla colpa. La sfida consisteva nel concepire una rappresentazione “autogenerante”– endogonidia, appunto – ovvero che non derivasse da un testo classico o comunque già scritto, ma che traesse la propria “tragicità” dagli spazi e dai luoghi contemporanei che attraversava, restituendo agli spettatori la possibilità di comprendere, attraverso il meccanismo della finzione teatrale, la violenza presente nella loro stessa realtà.



Il nucleo tematico centrale della Tragedia Endogonidia consiste nella tragicità insita nell’esperienza umana del linguaggio. Così come aveva evidenziato W. Benjamin nei suoi studi sul teatro barocco e sul teatro antico, la tragedia attica era il luogo nel quale per la prima volta la prospettiva dell’essere umano di risolvere i conflitti mediante la parola si mostrava portatrice di un doppio significato: da un lato era fondamento di una nuova comunità che si liberava dal volere degli dei, dall’altro era il segno di una dolorosa insolvibile scissione tra l’individuo-eroe, la sua vita e quella stessa comunità (Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999 (Ursprung des deutschen TrauerspielSuhrkamp Verlag, Frankfurt and Main 1974). Nel teatro antico, infatti, l’agire dell’eroe era contraddistinto da una scissione che si traduceva in un caparbio “tacere” che lo annientava e lo costringeva nella solitudine e nel silenzio, lontano dalla comunità che si andava istituendo proprio attraverso l’atto della parola e del dialogo tragico. Benjamin sottolineava l’importanza di considerare il tragico come un fenomeno legato alla realtà storica e sociale della Grecia antica, piuttosto che come un tema filosofico,  tuttavia l’aspetto tragico del linguaggio è anche un tema che, a partire dal teatro greco e dalla nascita nel medesimo periodo del pensiero filosofico, ha attraversato tutta la cultura occidentale e che si fa più urgente nella nostra contemporaneità, caratterizzata dall’estensione e dalla proliferazione globale dei sistemi di comunicazione: fin dal teatro greco, come ci fa notare oggi Agamben, il linguaggio umano, «l’esperienza cioè, dell’uomo in quanto è, insieme, vivente e parlante, un essere naturale e un essere logico, era apparsa […] necessariamente scissa in un conflitto insanabile».


La tragicità del linguaggio è un tema già presente nelle precedenti esperienze teatrali della Socìetas, ma assume, nella Tragedia Endogonidia, una centralità e una radicalità tali da configurarsi come il nucleo originario di una ipotetica nuova rappresentazione del futuro: al silenzio e al sacrificio dell’eroe tragico corrispondono un nuovo silenzio e un annientamento che toccano, principalmente, gli spettatori a cui si rivolge la rappresentazione (Si pensi all’invenzione di una nuova lingua, la Generalissima in cui si concentri tutto il dicibile, in Kaput Necropolis, (1984), al Giulio Cesare (1997) in cui il discorso di Antonio è detto da un laringectomizzato, alla riduzione in partitura sonora del Voyage au bout de la nuit di Cèline,(1999), a Combattimento (2000) con le voci che cantavano i madrigali di Monteverdi erano variate da Scott Gibbons in contrappunto con il respiro di un cavallo morente).



Negli Undici Episodi si manifesta una tensione dialettica e oppositiva senza soluzione che investe in particolare il registro sonoro di quest’opera e che essa sia finalizzata a disporre gli spettatori in una situazione di ascolto che definiamo tragico. Il significato del termine tragico a cui ci riferiamo qui, consiste secondo l’accezione attribuitagli da Peter Szondi, in «una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie, e cioè quella dialettica»: dialettica che produce, in questo caso, un collasso dell’emissione dei suoni o della voci e, simmetricamente,  dell’atto di ascoltarli. La nostra ipotesi è che nella drammaturgia sonora della Tragedia Endogonidia agiscano, sia a livello tematico che a livello compositivo, alcuni poli oppositivi e che ciascuno di essi corrisponda a differenti facoltà dell’ascolto dello spettatore che, nel corso della rappresentazione, vengono spinte verso una tensione che non si risolve mai verso un polo o verso l’altro. 




Si tratta del conflitto tra silenzio voce, tra paradosso e senso del discorso, tra organico inorganico:

-          Il conflitto tra il silenzio e la voce fa riferimento alla dimensione indiziale dell’ascolto, nella quale un evento  sonoro può fornire a chi lo ascolta informazioni riguardo alla sua  sorgente. Nel suo saggio sull’audiovisione nel cinema, Michel Chion organizza il rapporto tra i suoni e la loro percezione secondo tre diverse tipologie di “disposizioni all’ ascolto”, che interagiscono nella ricezione del registro sonoro di un qualsiasi evento : ascolto indiziale, causale o semantico e ascolto ridotto. (Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Milano 2001, pp. 33-40; Ed. orig. L’audio-vision. Son et image au cinéma, Editions Nathan, Paris 1990).
Nella Tragedia Endogonidia, come vedremo, si assiste a una variazione  dell’udibilità e della percettibilità delle voci umane rispetto al polo estremo che è il silenzio, in modo tale  che quest’ultimo si configura non solo come un vuoto o semplice assenza di suono, ma soprattutto come il prodursi di gesto di annientamento dell’atto di parola. Il silenzio che qui intendiamo diventa una specifica categoria, uno sfondo, uno spazio sonoro, come lo ha definito Murray Shafer, caratterizzato da proprietà materiche, su cui emergono, per poi sempre soccombere o sparire come fossero inghiottiti e comportandosi come autentici personaggi,  i diversi eventi sonori vocali. Secondo la definizione di R. Murray Schafer, studioso canadese che si è occupato dei rapporti tra suono, rumore e ambiente, un “evento sonoro” (sound effect) è la più piccola particella autonoma di suono, che accade in un determinato intervallo di tempo di un “paesaggio sonoro” (sound scape). Quest’ultimo è definito come un ambiente di suoni, un qualsiasi campo acustico: quindi sia evento sonoro che spazio o paesaggio sonoro sono eventi uditi e costruiti dalla nostra percezione. (Cfr. R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro (ed orig. The Tuning of the World, Alfred A. Knopf, Inc., New York 1977), Le Sfere Ricordi, San Giuliano Milanese 1998, pp. 13-25).


-          L’opposizione tra paradosso senso comune senso del discorso, mette in discussione la dimensione semantica dell’ascolto, che riguarda cioè il senso di ciò che si ascolta. «Il tragico si rapporta al demonico come il paradosso all’enigma. In tutti i paradossi della tragedia […] l’ambiguità, lo stigma dei demoni, va estinguendosi»: cosi scriveva Benjamin, sottolineando, nella tragedia greca, la forza eversiva del paradosso come procedura di “rovesciamento del significato” che spezza la logica del destino umano già deciso dagli dèi. Il paradosso si declina come strategia di una variazione del discorso verso tutti i sensi possibili, figura di un divenire che determina capovolgimenti e slittamenti il cui modello letterario nella modernità è, secondo Deleuze, Alice nel paese delle meraviglie di Carroll. Vedremo, in particolare, come questa logica del ribaltamento agisca nella Tragedia Endogonidia in diverse forme: come strategia di spiazzamento della voce rispetto al senso delle parole, come variazione della sincronizzazione tra il suono e la sua fonte, come dislocazione, infine, dei punti di ascolto.

-          La dialettica tra organico e inorganico vede opporsi suoni continui prodotti dalle macchine a suoni discreti e distinti che, invece appartengono ai corpi viventi. I paesaggi sonori delle città contemporanee sono dominati da commistioni e da variazioni continue di suoni che rimandano a sorgenti organiche e inorganiche e che risultano spesso indistinguibili gli uni dagli altri, come nel caso delle voci tecnologicamente riprodotte, dei suoni elettroacustici di sintesi o, più semplicemente, dei suoni generati dai motori. Per distinguere questi suoni è necessario porre attenzione alle caratteristiche proprie dei singoli eventi sonori, ovvero al loro timbro, alla loro tessitura e alla loro vibrazione, sviluppando una forma di ascolto che lo studioso del suono Pierre Shaeffer ha proposto di denominare ascolto ridotto.
«Pierre Schaeffer, ha battezzato “ascolto ridotto” l’ascolto rivolto alle qualità e alle forme proprie del suono, indipendentemente dalla sua causa e dal suo senso; e che considera il suono come oggetto di osservazione, invece di attraversarlo mirando ad altro ( l’aggettivo «ridotto» è tratto dalla nozione fenomenologica di riduzione di Husserl)». (Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, cit., p.36).
 Rispetto alle altre due disposizioni di ascolto (quella indiziale e quella semantica), quella dell’ascolto ridotto rimanda alla dimensione più propriamente percettiva di questa funzione umana, e consente un’apertura verso il piano affettivo, emozionale ed estetico della ricezione. Vedremo che nella Tragedia Endogonidia si riscontrano diverse occorrenze di variazioni dei profili dei suoni sull’asse della polarità tra organico e inorganico e che esse si caricano di una forza emozionale che sfocia, in ciascun episodio, nel prodursi di una vera e propria catarsi nell’ascolto degli spettatori.(...)



Procedimenti compositivi della Tragedia Endogonidia

a)       Scissione, modulazione assemblaggio delle sonorità organiche
I procedimenti adottati da Scott Gibbons nella Tragedia Endogonidia, hanno consistito nel captare, molecolarizzare, modulare e articolare le diverse materie sonore secondo una logica di scissione e parcellizzazione degli elementi. Nel corso dei laboratori preliminari di preparazione dello spettacolo, lui e Chiara Guidi hanno costruito, utilizzando come sorgente la voce di quest’ultima, un archivio di sonorità da cui, successivamente, hanno tratto la maggior parte degli eventi sonori degli Episodi. Hanno infatti modificato, ridistribuendone le componenti in emotive, la voce di Chiara che cantava la sua partitura del Canto del Capro negli spazi-laboratorio del teatro Comandini di Cesena: l’hanno registrata, moltiplicata, amplificata e scomposta in elementi minimi e Gibbons l’ha ulteriormente modulata mediante un sintetizzatore analogico. Per il suo lavoro di modifica del suono, il compositore ha utilizzato soprattutto la sintesi granulare, un procedimento che opera su minuscoli grani sonori – particelle di suono della durata di 5-50 millisecondi – che consiste nel modificarli applicando a ciascuno diversi parametri spettrali, (Lo spettro di un suono tiene conto della sua durata, del suo timbro, della lunghezza d’onda (da suono acuto a grave) e dell’intensità ( volume)).come la lunghezza d’onda e la durata, che possono provenire anche da altri campi dati diversi da quello sonoro. Si tratta di un’operazione attraverso la quale è possibile ottenere sonorità che non corrispondono a toni o melodie, ma a “nuvole di suono”, composte da infinite cellule eterogenee diversamente “connotate”, che fondono, materialmente, dati che provengono dai campi diversi, quello sonoro così come quelli visivo e cromatico.
È un suono che penetra come un’onda vibratoria, nelle materie che attraversa, degradandosi fino a oltrepassare il confine dell’impercettibilità e della riconoscibilità.




Questo suono viene diffuso in platea mediante sistemi multicanale come il surround 5:1 (Un impianto surround 5:1 è un sistema di diffusione del suono che ha lo scopo di collocare l’ascoltatore al centro della scena sonora mediante una disposizione di 5 altoparlanti che lo circondano e che portano differenti canali sonori: due canali frontali sinistro e destro, un canale frontale, due posteriori sinistro e destro. Gli effetti di bassa frequenza sono contenuti in un ulteriore canale speciale detto subwoofer)in modo tale che gli spettatori si trovano immersi in un ascolto che configura per ogni Episodio, un diverso spazio acustico o “paesaggio sonoro”. Sono spazi acustici le cui sonorità hanno caratteristiche materiche e cromatiche: ad esempio gli Episodi di Avignone, Berlino, Bruxelles, Roma e Londra hanno spazi visivi dominati da tonalità bianche e nebulose, cui corrisponde un gassoso “rumore bianco”, mentre a Parigi, Marsiglia e Strasburgo l’ambiente visivo della scena ha una dominante nera e buia, che si connota di sonorità liquide, come un pozzo o una caverna attraversata da tracce di sonorità acquatiche.




Gibbons utilizza anche la tecnica del sampling, ovvero innesta sul “fondo sonoro” campioni prelevati da altri contesti sonori, come ad esempio nell’incubo della madre in B.#03 BERLIN, in cui si distinguono, ulteriormente rielaborati, alcuni frammenti del film sperimentale Alone-Life Waste Andy Hardy (1998) in cui il regista austriaco Martin Arnauld ha decostruito le tracce sonore di alcune scene della popolare serie tv americana, enfatizzandone ironicamente il ritmo “orgasmico” ripetitivo, balbuziente e sincopato. (Prodotta dalla MGM, la saga di Andy Hardy e della sua famiglia ebbe inizio con il film A Family Affair (1937) e durò vent’anni, fino al 1958. Il nome del personaggio ( interpretato da Mickey Rooney) compariva nei titoli di quasi tutti i film, a indicare la centralità del personaggio, rappresentante - tipo del cittadino medio americano e della sua famiglia.  M. Arnold ne ha tratto  un corto di 15 minuti in cui la ripetizione compulsiva e ironica di alcuni frammenti devia verso il perturbante la ricezione di un film altrimenti classico, ispirato alla “medietà” dell’American way of live. . Si tratta di un esempio di found footage film, ovvero un film realizzato con spezzoni prelevati da film preesistenti che vengono riassemblati in un nuovo contesto che ne modifica radicalmente il senso. Scott Gibbons preleva a sua volta un campione del film di Arnold e lo immette nel contesto scenico: si tratta della voce di Judy Garland, che nel film-serie interpretava  una giovane cantante e che viene modificata da Arnold, come scrive Michael Zryd in direzione di un ritmo ipnotico di forte intensità sessuale : «Betsy/Judy Garland appears, singing Alone: “Alone on a night that was meant for love / There must be someone waiting who feels the way I do.” The words“alone”, “love”, and “waiting” are looped, emphasising their resonance with the desiring Oedipal subject, alone, loving, and forced to wait for a ‘proper’ object of desire. However, Arnold emphasises Betsy/Garland’s desire as much as Andy’s: the sheer length of “her” tableau, as well as its emphasis on voice, so iconically bound to Garland’s image, marks the richness of her desire».  Cfr. Michael Zryd, Alone: Life Wastes Andy). La voce, prelevata in questo caso da un contesto esterno, che l’aveva già modificata e “degradata”, subisce un ulteriore processo di parziale filtraggio che ne modifica il timbro e il senso fino diventare un suono-fantasma che sembra provenire da una vecchia radio degli anni Cinquanta.

Nel corso delle singole rappresentazioni, eventi sonori come i rumori dei movimenti del corpo degli attori, degli oggetti e delle superfici dello spazio scenico hanno subìto un analogo trattamento di parcellizzazione: sono stati “captati” mediante microfoni disposti sul palco oppure dentro gli oggetti stessi e amplificati così come si presentavano in scena, oppure modulati mediante il sintetizzatore e dislocati in tutto lo spazio del teatro, dal palco alla platea, fin sotto i sedili degli spettatori. I suoni hanno subito pertanto una doppia scissione: da un lato sono stati separati dalla rispettiva sorgente e dislocati nello spazio del teatro, dall’altro variati nello spettro, determinandosi così una situazione di contrappunto rispetto all’evento visivo cui sembravano riferirsi, come in BR.#04 BRUSSEL, quando il movimento dell’abito della Madre, amplificato e degradato, corrispondeva dal punto di vista timbrico a un accartocciamento di tono grave che invadeva la platea.
La dimensione di ascolto creata da Gibbons è modellizzata sui sistemi di trattamento e diffusione del suono del cinema e della televisione ma, per certi versi, ne costituisce una sorta di percorso all’inverso: infatti qui le sonorità, che promanano dalle diverse materie non mirano ad accentuare il grado di riconoscibilità dei singoli suoni, ma a produrre l’effetto contrario. La resa del sonoro mediato dalla tecnologia, come ci spiega Chion, è finalizzata, nel cinema, a proiettare lo spettatore in una realtà sempre più “verosimile”e verso un suo contatto più immediato con un’immagine della realtà di cui le «nostre esperienze sensoriali sono gomitoli di sensazioni agglomerate» (M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, cit., p. 104).




Sembra qui che l’operazione di Gibbons miri proprio a rendere complicare e mettere in vibrazione la sensazione, piuttosto che dipanarla: il suo procedimento non mira a descrivere o esprimere la voce che proviene dal corpo o i suoni che provengono dalle materie, ma a decostruire questi suoni dentro i corpi e le materie da cui provengono e a creare una dimensione di contrappunto del registro sonoro rispetto a quello visivo, con esiti che portano al configurarsi di una vera e propria drammaturgia sonora.

b)       Modulazione della forze che abitano le materie
Ma quali sono le forze che abitano in profondità, nella materia e su cui si riorganizzano le sonorità della Tragedia Endogonidia? Deleuze e Guattari, che hanno ripensato, nei loro Millepiani, i processi della creazione artistica, ci dicono che sono la Durata nel tempo e l’Intensità nello spazio e che l’arte contemporanea, abbandonando il compito di rappresentare le forme dei corpi, delle cose e delle materie, si occupa di captarle e renderle tangibili, udibili e visibili. Secondo i due filosofi infatti, proprio la musica elettronica mediante le sue specifiche strategie di captazione e condensazione, «molecolarizza la materia sonora, […] che diviene capace così di captare forze non sonore, come la Durata e l’Intensità». L’ascolto dell’articolazione di queste due forze nei processi sonori produce due dimensioni temporali opposte che corrispondono, secondo Deleuze e Guattari, alle due nozioni temporali di matrice stoica di Cronos e Aiôn. Il primo è il tempo pulsato, tempo della territorializzazione e della presenza marcata dal numero dei passi che l’essere umano compie quando, camminando, occupa come soggettività un territorio, e che diventa segnale di misurazione del tempo e dello spazio, affermazione del tempo presente, mentre Aiôn è la forma infinita e incorporea del tempo non pulsato, de-territorializzante, il divenire infinito e illimitato che schiva il presente, un neutro pre-individuale, il tempo dell’evento.  (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 479 (ed. orig. Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris 1980).  

Sui concetti di tempo pulsato e tempo non pulsato, cfr. il corso a Vicennes 3 maggio1977, sul sito http://www.webdeleuze.com. Inoltre, per approfondire i rapporti tra la filosofia di Deleuze/Guattari e la musica elettroacustica, Cfr. R. Paci Dalò e E. Quinz (a cura di), Millesuoni, Deleuze, Guattari e la musica elettronica, Cronopio, Napoli 2006.




Nella Tragedia Endogonidia si può dire allora che il materiale visivo e sonoro compie un movimento continuo e conflittuale di territorializzazione e deterritorializzazione del tempo e dello spazio che “l’organismo della rappresentazione teatrale” attraversa nel suo percorso di mutazione che comprende infinite morti e rigenerazioni. Le sonorità si alternano in un movimento sismico fluttuante ondulatorio che oscilla tra silenzi cosmici siderali e stati di vibrazione organica, oppure tra scivolamenti verso pulsazioni indefinite, segnalando uno stato di infinita metamorfosi. Puntuali, all’opposto, i frammenti di vocalità, i conflitti tra gli oggetti e le materie e le voragini fragorose che squarciano gli spazi marcano ritmicamente e “affettivamente” una presenza dolorosa, fragile e provvisoria, sempre minacciata dall’annientamento e dall’essere trascinata nel flusso della trasformazione.

c)       Captazione del linguaggio del corpo
 Come S. Gibbons, ha messo in atto un procedimento di “captazione” dei suoni, così anche Chiara Guidi ha creato un sistema di captazione, molecolarizzazione, e variazione delle forze sonore che abitano il corpo e per fare questo ha utilizzato lo strumento della voce. La sua ricerca si è concentrata sull’elaborazione di un codice attraverso il quale dare voce a una lingua che provenisse direttamente dal corpo del capro, l’animale da cui la tragedia trae il suo nome, e che non fosse una semplice trasposizione formale né figurativa o espressiva. Prima dell’inizio della rappresentazione di A.#02 AVIGNON, gli spettatori hanno potuto assistere a un video nel quale un capro nero, visto dall’alto, si muoveva in silenzio su un diagramma ordinato con diverse lettere disegnate su un fondo bianco, nel rivelando una traccia dell’operazione attraverso la quale la lingua del capro era stata restituita letteralmente al corpo dell’animale. Le lettere che componevano il diagramma, come spiegavano Chiara Guidi e Romeo Castellucci nel programma di sala di A.#02 AVIGNON [24], erano infatti le iniziali delle sigle delle proteine responsabili delle funzioni vitali di un capro – della respirazione, della crescita delle corna e della putrefazione – e quest’ultimo era stato ripreso mentre tracciava, con il suo pascolare, i collegamenti tra esse, creando, in questo modo, le “sue parole” da cui Chiara Guidi ha tratto la sua partitura del Canto del Capro[25].

Nel procedimento inventato da Chiara Guidi le forme delle lettere “scelte” dal capro nel suo pascolare sul diaframma sono state lette e “cantate” con azioni vocaliche caricate di valenze emotive diverse, che scaturivano dalla forma stessa di ogni lettera, le cui linee costitutive venivano considerate come vettori di forze aventi ciascuno una sua direzione e un’intensità. La partitura cantata dalle due Ambasciatrici, che abbiamo potuto riascoltare nel Ciclo Filmico negli Episodi A.#02 AVIGNON e BN.#05 BERGEN è fatta di poche vocali e molte consonanti, non dice parole che alludono a una lingua umana conosciuta, ma proviene direttamente dal corpo delle due donne (respiro, laringe, faringe), sale fino ai sibili acuti che passano attraverso le loro corde vocali, glottidi e bocche e scende dai loro nasi e cavità orali fino a rientrare nella basse tonalità cave dei loro diaframmi: il corpo delle due donne diventa strumento di fonazione per ogni singola lettera e fonema.

     È una voce che «[…] lascia intendere» direbbe Roland Barthes «a chi sa porgervi ascolto, quella che potrebbe dirsi la sua “grana”», ovvero la materialità, la sua origine corporea, e che offre a chi la ascolta qualcosa che il discorso costruito con le parole non dice( R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 78 (ed. orig. L’obvie et l’obtus. Essais critiques III, Éditions du Seuil, Paris 1982) pp. 238-251).
Nel definire la “grana” della voce in relazione al canto, Barthes ha fatto riferimento alla distinzione operata da Kristeva tra il feno-testo e geno-testo, traslandola in feno-canto, il linguaggio che serve alla comunicazione tra due soggetti e il geno-canto, che costituisce la base sottostante al linguaggio stesso, manifestandosi come un «un gioco significante estraneo alla comunicazione, alla rappresentazione (dei sentimenti), all’espressione». Il geno-canto lavora foneticamente sul corpo delle singole lettere e trasporta le energie pulsionali e le loro disposizioni, i tagli che imprimono nel corpo di chi parla, «è il volume della voce che canta e che dice, lo spazio in cui i significati germinano dall’interno della lingua e della sua materialità». Il geno-canto produce una scrittura cantata con la voce, un’enunciazione che si avvale della prosodia e della fonetica, che governa gli accenti e le vibrazioni materiali del suono che passa attraverso le cavità fonatorie. In questo senso concordiamo con E. Pitozzi, secondo cui la partitura del Canto del Capro è come una scrittura a voce alta di una lingua che proviene dal corpo del capro e aggiungiamo noi, che la voce canta la forma delle lettere. (E. Pitozzi, Il corpo, la scena, le tecnologie. Per un’estetica dei processi d’integrazione,  Tesi di Dottorato in Studi teatrali e cinematografici, pp.190-91).



La voce umana di Chiara Guidi scrive nello spazio, attraverso il canto, la lingua di un corpo che non ha voce, ovvero la lingua del capro che è, nelle origini della tragedia, la vittima sacrificale silente, l’animale sacro che veniva immolato agli dei e del quale l’eroe tragico prendeva il posto, sacrificandosi nel silenzio per “donare” alla sua comunità la parola con cui liberarsi dal volere degli dei. Il nesso tra l’animale sacrificale e la lingua che ne annuncia il canto si affida a un procedimento che graficamente ha l’aspetto di un gioco (il cruciverba).  



(Nel video di A.#02 AVIGNON, come pure nei programmi di sala dello stesso Episodio e nei menu dei DVD del Ciclo filmico, compare il diagramma del capro), linguisticamente quello del paradosso (la lingua che canta le lettere degli aminoacidi scelte dal capro), e, strutturalmente l’organizzazione rigorosa e di un codice qualsiasi (ogni lettera corrisponde una precisa organizzazione dell’apparato fonatorio, come in qualsiasi lingua). Il senso di quest’operazione consiste a nostro avviso nel richiamare l’animale in questa tragedia in una modalità paradossale che non sia né citazione né narrazione, ma assunzione di un’animalità pensata come puro abbandono alla sua vita biologica di essere vivente. Ci dice Agamben, in L’Aperto,  che l’uomo post-storico si trova di fronte alla possibilità di scegliere tra il dominio della (sua)  animalità attraverso la tecnica oppure consegnarsi all’abbandono in una zona di eccezione tra l’umano e l’animale, tentando una forma di riconciliazione con l’animalità, che è connaturata alla vita stessa. (Cfr. G. Agamben, L’aperto, Bollati Boringhieri, Torino 2002). fondamenti del bios dell’animale diventano letteralmente scrittura vocale che supera la logica della tensione tra animale e umano: il corpo del capro viene messo in condizione di scrivere il suo canto in una modalità paradossale che scarta la mimesi e, nondimeno, il canto che ne deriva mantiene un legame espressivo tra il corpo vivente dell’animale e quello dell’essere umano.





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