giovedì 10 novembre 2016

EIJA-LIISA AHTILA #2, LE FORME DEL RACCONTO

scheda a cura di Farnoosh Samadi

  "cito me stessa, (...)quella me stessa in cui mia madre è fisicamente presente in me e io sono presente in lei." Eija Liisa Ahtila

Eija-Liisa Ahtila realizza sempre opere sia in versione filmica (pellicola 35mm), sia  installativa, e in questo secondo caso con diverse proiezioni video simultanee. Per quanto riguarda la distribuzione, le installazioni vengono accolte all’interno di musei e gallerie, mentre i film circuitano nei festival cinematografici e sui canali televisivi. E’ per queste ragioni che non è possibile definire l’artista finlandese all’interno di un genere unico, tanto più che prendendo a prestito forme ben radicate quali il documentario, la fiction, il videoclip musicale, l'artista lavora verso la ri-significazione. A fare da sostrato c’è sempre, in ongi caso, l’attenzione rivolta a quelli che lei stessa definisce “drammi umani”: si tratta di storie intorno alla difficoltà di comunicare, intorno alla formazione e alla disintegrazione dell’identità, riflessioni sul senso della vita, della morte e del tempo. In primo piano ci sono sentimenti elementari e le relazioni umane,  come il rapporto tra figli e genitori, la chiusura delle relazioni, l’approccio alla sessualità, e diverse manifestazioni di psicosi in giovani donne.

Lo spettatore convocato a giudizio
Mettendo in scena situazioni specifiche, ma al contempo universali e paradigmatiche, Ahtila si fa regista di tragedie contemporanee. Così dice parlando di se stessa: “mi piace raccontare storie, scoprire cosa accade nei rapporti tra le persone. Mi piace anche vedere come gli individui sperimentano il proprio ruolo nella società”. Tutte le storie che propone, si basano su ricerche, fatti realmente accaduti, esperienze e memorie dell’artista stessa.
La struttura di questi “drammi umani” è incentrata, in generale, più sulla presa di parola che non sull’azione; i personaggi si raccontano intrecciando il loro punta di vista soggettivo con gli eventi che determinano la loro esistenza rendendo di fatto l’organizzazione narrativa oltre modo complessa, in quanto l’elemento psicologico soverchia il mythos, la narrazione, l'intreccio.
I singoli personaggi sfilano davanti alla macchina da presa dando vita ad un discorso libero e indiretto rivolto allo spettatore che così viene inglobato all’interno della diegesi; i soggetti non intrattengono, se non di rado, scambi dialogici tra di loro. All'interno di questa particolare forma di comunicazione, lo spettatore è il "terminale"a cui si chiede esplicitamente di elaborare il contenuto delle informazioni; egli viene sedotto e coinvolto emotivamente dalla storia soprattutto perché le vicende esposte sono quotidiane ed è per questo facile solidarizzare con i personaggi che si rivolgono a lui come se fosse un giudice e loro gli imputati. La si potrebbe definire come una sorta di reciproca analisi che porta alla messa in luce di debolezze e fobie collettive.

Intimità, privato e pubblico 
L’intimità ha come contraltare lo straniamento. Grazie ad un’estrema padronanza dei meccanismi della fiction, l’artista finlandese porta gli spettatori a riflettere sulla loro condizione ma non permette che, come al cinema, questi si lascino trasportare dagli eventi a tal punto da immedesimarsi con i protagonisti. La distanza reale tra l'attore e il personaggio che interpreta non viene camuffata ma addirittura evidenziata provocando la rottura del flusso narrativo ad opera di avvertimenti e richieste di intervento nell’elaborazione dell’opera rivolte alle persone che guardiamo. Ahtila si rivolge a fruitori convinta che essi sappiano osservare  dall’esterno,  allo stesso tempo con trasporto e con distacco perché solo così si può procedere all’organizzazione (se pur parziale) dei livelli narrativi che l'opera manipola audacemente. Il piacere estetico che ne trae chi esperisce questi “drammi”, deriva proprio dall’attenzione che si presta al modo in cui significato e forma sono messi in relazione. Occorre infatti puntualizzare che i vari registri informativi non sono strutturati in un sistema chiaro ed univoco ma si compenetrano, si contrappuntano, si rimpallano l’uno con l’altro incessantemente. Ahtila rifugge dai canonici criteri di unità e linearità e nulla sembra essere calato dall’alto col carattere della necessità e dell’a-priori. Già in fase di sceneggiatura Ahtila costruisce le sue opere con uno carattere non consequenziale che sfocia in uno stile  frammentario del racconto mediante accorgimenti tecnici quali la sovrapposizione di immagini e l’incostanza del ritmo.

Caos organizzato
I video dell’artista finlandese presuppongono implicitamente la chiarezza per negarla poi al proprio interno; si può parlare così di un caos organizzato. Questo ossimoro rende bene l’idea di come venga ricercata la tensione tra il non lasciarsi capire e il voler essere capito che pervade ogni cosa nella comunicazione umana. Così anche la questione del nome, dell'appartenenza e dell'anonimato.  Nel suo lavoro le barriere fisiche e psichiche smettono di avere una valenza e, cadendo, permettono agli spettatori di assistere al paradosso di più voci, e quindi più individualità, che coabitano in uno stesso corpo, come in Okay o di una stessa voce per più corpi come in Me/We o ancora di voci scollate del tutto dal corpo. I diversi personaggi sono pressoché tutti indeterminabili al punto che Ahtila spesso non dà loro neppure un nome. Non è errato parlare di opere multistratificate perché esse instaurano di volta in volta diversi insiemi di risonanze e accostamenti di senso sollecitati da un montaggio sempre discontinuo che procede per giustapposizioni. Esso ci costringe all’”erranza” e allo smarrimento dello sguardo e dell’intelletto. La stessa “erranza”, poi, prevede la sosta e la “veggenza”: di fronte ad un mondo che pare aver tranciato di netto nessi e raccordi, non si può far altro che fermarsi a guardare e riflettere (coadiuvati in questo dall’andamento di un ritmo che improvvisamente cala o comunque si stabilizza) prima di rimettersi in moto.
Una narrazione ricca e stratificata di sensi si fa espressione dell’ampiezza e complessità dell’esistente perché più il mondo si racconta, più si fa complesso.  Ahtila fa fronte a questa esigenza con la frammentazione, la disseminazione e la sovrapposizione di significati che diventano il correlativo oggettivo di un mondo psichico tutt’altro che monolitico e piiuutosto scomposto, privo di gerarchie. La forma mentis delle sue narrazioni non può che essere contraddistinta da turbini, flussi, asimmetria, indeterminazione, squilibri.

Il paesaggio senziente
Se alcune volte il messaggio che i video veicolano appare troppo concettuale,  in alcuni altri casi  è sin troppo esplicito, e talvolta  Ahtila rischia di scadere in un eccesso di letteralità con una serie di metafore visive e sonore troppo marcate, a cominciare dai paesaggi e da una natura non indifferente sempre così inospitale e impenetrabile che si configura come diretta espressione dello stato d’animo dei personaggi Gli alberi sono sempre spogli e lasciano cadere per terra le loro foglie secche, la neve si scioglie e tutto ciò sta a simboleggiare la condizione esistenziale di estrema labilità e instabilità che caratterizza i protagonisti dei video; le sterpaglie parlano di difficoltà sentimentali, di aridità che contraddistingue l’impossibilità di relazionarsi con i propri simili, e il sopraggiungere delle tenebre veicola sempre lo scatenarsi di una crisi. La confusione, così trasferita dall’ambiente naturale agli uomini, è da questi riversata sugli animali che cercano di adeguarsi simbioticamente con gli esseri umani, come i cani in Consolation Service che si azzuffano e abbaiano in continuazione sottolineando metaforicamente, e intervallandoli, gli alterchi tra Anni e suo marito J-P.
 
Spazi   claustrofobici
Per quanto riguarda gli spazi costruiti, ciò che sta attorno ai personaggi è sempre disposto in maniera caotica e sconnessa, porta i segni della consunzione del tempo, opprime e schiaccia. Ne vien fuori uno spazio claustrofobico che costringe i personaggi ad un delirio scaricato con automatismi ripetitivi e meccanici come il passeggiare istericamente su e giù. Il senso di costrizione è poi spesso amplificato e rafforzato dal replay, dal ralenti e da riflessi che contribuiscono ad accrescere la portata ossessiva delle reiterazioni. Le riprese sottolineano in maniera ridondante lo stato d’animo dei personaggi: la camera a mano che traballa risente della loro insicurezza; spesso le inquadrature insistono su riprese vorticose che per la loro rapidità lasciano anche strisciature,  simboli,  oltre che della confusione, anche del subitaneo trascorrere del flusso verbale che si dispiega in una miscellanea di pensieri che trapassano senza soluzione di continuità l’uno nell’altro.
Altre volte lo spazio fisico intorno è opalescente e aprospettico, un motivo in più perché la macchina da presa si soffermi con più insistenza sui primi piani dei personaggi mettendo gli spettatori a tu per tu con il loro flusso di pensieri sconclusionato e inquieto. Lo spazio così indistinto e neutrale esprime uno stato di spaesamento diretta emanazione di quello ansiolitico. I luoghi chiusi, in particolare la stanza, sono metafora dell’identità, della proprietà privata e il fatto che siano così scarsamente definiti e impalpabili esprime dichiaratamete la crisi esistenziale di chi invece dovrebbe organizzarli e disporli a partire dal proprio punto di vista che evidentemente manca. La semioscurità, il bianco e nero, la fotografia irreale per la qualità del colore, sottrae concretezza agli spazi interni che sembrano sospesi e in continua fluttuazione. Tanto per fare degli esempi basti soffermarsi ad osservare l’interno dell’elevatore industriale di Gray e la carrellata all’interno del salotto di Vera in Today. Il bagliore diffuso e fluorescente interviene ad ovattare questi luoghi trasportandoli in una dimensione straniante.
Anche gli oggetti sono metaforici, pensiamo ai lenzuoli tenuti dalle mollette in Me/We espressioni di un’identità in via di definizione (le lenzuola completamente bianche proiettano riflessi e ombre casuali come se fossero lavagne), così come la mascherina antigas in Gray è espressione del rifiuto del dialogo e del confronto, la pallina lanciata con protervia contro la telecamera in Today è invece richiesta supplicante dello stesso,  la maschera tribale e orrida isolata nel disordine circostante, sempre in Today, richiama per analogia il tema della morte; la pianta in via di appassimento in Consolation Service anticipa la conclusione di un rapporto coniugale; e si potrebbe continuare.

Inconscio e immaginazione
Spesso Ahtila individua le sue metafore visive collocandole in inserti privi quasi di specificità narrativa, anzi addirittura incongruenti. Le immagini dei paesaggi si susseguono ex abrupto, paratatticamente come tante cartoline; scene come quelle relative al rovesciamento della tazzina in Me/We (che rimanda al tema del dilagare della crisi), il librarsi in alto per poi sospendersi in aria della pallina di carta e delle stesse protagoniste in Gray (resa traslata del momento di transizione da una condizione esistenziale ad un’altra) attingono esplicitamente nel mondo dell’immaginazione, del sogno e dell’inconscio.

Registro sonoro
 Anche il registro sonoro è fortemente connotativo. La non indifferenza della natura fa si che ci sia tutto un profluvio di suoni legati ad essa che colloca gli eventi nella biologia mutabile ed imprevedibile: i versi e gli strepiti lontani di animali servono a concretare le tensioni e le richieste disperate di aiuto dei personaggi. Come questi, infatti, reclamano una certa stabilità, così gli animali rivendicano il loro spazio naturale sempre più coartato dall’espansione industriale che contamina e distrugge. Il vento, il respiro della natura disturbante e caotico, è una presenza ineliminabile all’interno dei video di Ahtila; fa da brusio continuo di fondo che talora trapassa indefinitamente in sospiri, dà sostanza alle catastrofi, ai flussi, agli sconvolgimenti, ma allo stesso tempo getta le basi per una rinata vitalità dopo che si è fatta piazza pulita di tutto il marciume. Non solo vento ma anche rimestio dell’acqua: spesso i discorsi liberi vengono condotti sott’acqua, “un mondo senza confini, fluido e in movimento (…), topos dell’immagine elettronica e ambiente originario, primario, archetipico (…), in costante disequilibrio” (Valentini: 1996). L’acqua rappresenta il liquido amniotico, l’essere non nato e quindi la possibilità di una nuova vita (dopo che tutto è andato a fondo) che alletta e atterrisce allo stesso tempo perché inconoscibile.
 C’è poi tutto un repertorio di rumori e suoni determinati da percussioni e ticchettii che aumentano di intensità e frequenza man mano che le situazioni precipitano inesorabilmente. Sono proprio i rumori senza un referente visivo a rispecchiare il complesso mondo psichico rappresentato; ci riferiamo ai chiacchiericci in sottofondo, ai rumori che rimandano ai mezzi di locomozione all’esterno (clacson, frenate, rombi di aerei…) che sostanziano gli ingorghi psichici dei personaggi. I cigolii che accompagnano il loro deambulare nevrotico e automatico rendono più esplicita la loro precarietà, la percezione della loro costrizione è connotata, invece, dallo sbattere e serrarsi amplificato delle porte; i sibili e i fischi distorti servono a inquietare preannunciando imminenti sventure.
 Recepire i flussi verbali dei personaggi significa anche e soprattutto voler guardare dentro i suoni immergendoci in essi che sono tutti organizzati in una massa globale e continua che rende improba l’identificazione di ogni singolo elemento e abbassa di molto il livello di intelligibilità ancor più compromesso da effetti distorcenti. Gli attacchi e le chiusure scivolano gli uni sulle altreaccavallandosi e camuffandosi così come del resto fanno le immagini e le individualità dei personaggi. Questa corrispondenza tra suoni e immagini innesca un interessante interscambio per cui le immagini si fanno suono e il suono a sua volta si fa immagine. Basti pensare a tutti quei casi in cui il registro sonoro, associato ad effetti come quello del rallenti o del replay, si adegua dilatandosi esso stesso, attraverso l’effetto dell’eco, sia nel tempo che nello spazio.

Montaggio
Il montaggio audio-visivo non è basato sulla commistione pura e semplice di registro sonoro e registro visivo, perché il senso viene determinato dal rapporto spazio-tempo che si apre tra l’immagine e il suono e più specificamente tra le molteplici modulazioni dell’immagine (forma, colore, movimento, angoli di ripresa) e le altrettanto molteplici modulazioni sonore (rumore, musica, parola sin anche il silenzio). Ahtila non si trincera dietro il solo registro visivo ecco perché i suoi video lasciano molto all’immaginazione riducendo l’arroganza dell’eidos e permettendo al sonoro di entrare a pieno titolo nella struttura cinematografica conferendo solidità e profondità alla stessa. Il suono prolunga lo spazio al di là della portata del quadro di rappresentazione, “restituisce fisicità e vita all’immagine, la porta a dialogare con l’ambiente reale”.
Gli effetti sonori di cui Ahtila si avvale danno sì concretezza, ma spesso sono sfasati, non vanno dove ci aspetteremmo, non seguono pedissequamente il visivo, spesso gli si contrappuntano a livello ritmico e questo perché la nostra attenzione si mantenga sempre desta; alcune volte le immagini sono proprio tagliate fuori e le vediamo grazie all’”occhio interno” collegato ai nostri sensi. Quando, infatti, lo spazio attorno ai personaggi si fa ermetico, noi siamo avvolti e sovrastati dalla musica; le visioni e le presenze che i protagonisti vorrebbero esorcizzare vengono effettivamente tagliate fuori, ma è impossibile difendersi dai suoni che di quelle stesse presenze e visioni costituiscono una metonimia. Nella carrellata in finale di seconda parte di Today, gli esseri fantasmagorici che si vogliono occultare e sopprimere, si riflettono in un suono cupo e invasivo che si propaga nell’ambiente esterno fino a fare un tutt’uno con esso.
 Benché separati, esterno ed interno sono sempre comunicanti e si registrano sovente incursioni e invasioni di campo. I rumori e le voci, i ricordi e le influenze esterne sgretolano le coordinate spazio-temporali rendendo inermi i personaggi nei confronti dell’invasività del modo sul proprio orizzonte domestico e sensoriale. Ciò detto, però, c’è da sottolineare come la musica viene quasi del tutto bandita all’interno degli spazi chiusi come quelli della stanza che favoriscono, invece, il raccoglimento e la riflessione sollecitata dal silenzio che pure non è mai del tutto assoluto: anche se solo per alcuni istanti gli echi della musica giungono sino all’interno e si associano agli immancabili rumori. Spesso laddove compare è assimilabile ad un lamento interiore monocorde che ci parla dello stato d’animo degli interessati. All’esterno, viceversa, la musica (sempre evocativa e inquietante) può dilatarsi in tutta libertà riecheggiando nell’aria e trasferendo l’impronta sua funesta ai luoghi che raggiunge i quali portano tangibili i segni dell’ammorbamento e della caducità: è come lo stato d’animo che si ha in preda a crisi depressive quando pare che tutto sia affondato attorno a noi. Toni più soavi e dimessi si accompagnano, invece, ad immagini stranianti e oniroidi.
La musica è sempre posta nei punti strategici, scandisce il tempo e fa impennare la tensione. I video di Ahtila sono tutti determinati da un andamento sinusoidale caratterizzato da climax e anticlimax; la musica fa da volano ed è per questo che non è del tutto inappropriato assegnarle il ruolo di narrante. Introduce, sottolinea e commenta i passaggi più drammatici ed è interessante notare come sia sempre associata a schermate nere o immagini dalla scarsa definizione che si assimilano per tanto alla confusione della musica stessa il più delle volte cacofonica o caratterizzata da vocalizzi corali e per giunta lontani.
Per quanto concerne i dialoghi c’è da dire che vien posta una sostanziale equivalenze tra pensiero e parole che si dipanano in flussi caratterizzati da profonda indeterminazione e allusione a qualcosa di non completamente afferrabile, finiscono sempre con lo smarrire il senso del sé nonostante siano in prima persona. Così come le immagini si susseguono con scarsa consequenzialità e i tagli e i cambi di angolazione sono frequenti, il flusso verbale è frammentato, fatto di frasi spezzate e determinato dall’alternarsi di diversi registri vocali. Un senso di inquietudine deriva dalla sincopata lingua finlandese ma il ritmo si conserva sempre piatto e uniforme, senza intonazioni di sorta; l’unica cosa che i protagonisti delle vicende possono fare, dato che non sono in grado di agire, è parlare in continuazione e passivamente quasi si trattasse di un condizionamento riflesso. In questo modo il discorrere, se pur non lineare, è continuo e fa da collante alle immagini. E’ sempre metaforico e muove in continuazione dal piano oggettivo a quello soggettivo e viceversa.

Il linguaggio non umano
Sembra  che i personaggi volutamente vogliano trovare un riparo catapultandosi in una dimensione strana che promana dal loro parlare enigmatico e astruso. Il fatto poi che il collegamento naturale fra soggetto e voce venga sfasato o addirittura annullato, oltre ad oggettivare il flusso di pensieri, è un polemizzare contro un tipo di comunicazione massificante che ha la pretesa di dominare e manipolare tutto ciò che le capita. Ahtila volutamente si avvale di un linguaggio non umano (personaggi che si abbaiano e si ringhiano vicendevolmente), che non si lascia codificare proprio perché poesia bizzarra che ha la capacità di saper elevare i personaggi dalla contingenza delle cose narrate. A questo si deve il loro essere controllati e composti se pur disturbati.
Come afferma Pietro Montani “i racconti, tutti i racconti, quelli fatti di parole quelli fatti di immagine, mettono al lavoro i paradossi del tempo e li trasformano in qualcosa che può essere seguito: in storie” (Montani: 2003). All’interno delle storie di Ahtila si sprigiona il tema dell’aporeticità del tempo, la sua inafferrabilità. Le configurazioni narrative dell’artista finlandese hanno un potere “sovversivo” nel senso che ad esperienza ultimata la nostra comprensione del tempo risulta modificata, così come la sua stessa concezione. Ci accorgiamo che non solo è possibile, ma addirittura auspicabile interpretare e abitare l’esterno in maniera differente e che “la nostra concezione del tempo come concatenazione di causa ed effetto è illusoria” (Valentini: 2004).
Il fuori-sincrono, il ralenti o la velocizzazione delle immagini così come i replay, sono procedimenti “in funzione di narcotizzare le relazioni di causa-effetto e quelle temporali e di magnificare gli aspetti percettivi dell’opera” (Valentini:2004). Non assistiamo all’elisione della temporalità, ma ad un suo approfondimento riflessivo: per renderla evidente si decronologizza il racconto strappandolo alla consequenzialità ed ecco che assistiamo a vistosi ed inspiegabili sbalzi spazio-temporali che i discorsi liberi continui, non lasciano per nulla presagire. Siamo messi a diretto contatto con lo spazio-tempo interiore che si dipana all’interno della memoria, del sogno e dell’inconscio.
E’ pressoché impossibile distinguere tra passato, presente e futuro in quanto tutti condensati e cristallizzati. Volendo utilizzare la terminologia di Deleuze, possiamo dire che “non c’è più concatenamento del reale con l’immaginario, ma indiscernibilità dei due (…). Nel cristallo non vediamo più il corso empirico del tempo come successione di presenti, né la sua rappresentazione indiretta come intervallo o come tutto, vediamo la sua presentazione diretta come presente che passa e passato che si conserva”. E il tempo, paradossalmente acronologico, dei video di Ahtila ha effettivamente in sé quel passato che fu e quel futuro che sarà; il tempo è un flusso entro il quale interagiscono e si compenetrano eventi precedenti, contemporanei e successivi.

Tempo atemporale
Ahtila si avvale di un tempo atemporale che non sa distinguere, cioè, tra passato e futuro perché simultaneamente annullati in una dimensione di eterno presente in cui non vale la differenza, né d’altro canto sarebbe possibile, tra un prima e un poi. Per eterno presente intendiamo un presente che si inventa continuamente, che si raddoppia, si modifica e si smentisce; presente che raccoglie tutto. Lo spazio non lineare ma planare della compresenza, è un tempo simultaneo o senza tempo “che è dello spazio mentale, memoriale, onirico” (Valentini: 1996). “Nel momento in cui, attraverso una collisione del passato con il presente o della memoria con la sensazione occasionale, il tempo rivela la sua natura simultanea e non successiva, esso stesso però sfugge alla temporalità, si eternizza”.
 Il racconto non è mera narrazione di eventi collegati logicamente e unificati da una tematica coerente da organizzarsi in un determinato tempo, me è prima di tutto conoscenza. Il narrare è un modus operandi per afferrare il significato degli eventi e comprendere il ruolo del tempo nelle vicende umane.  E’ quindi necessario che il racconto non rispecchi solo ed esclusivamente ciò che accade ma
esplori e immagini ciò che potrebbe accadere e il verosimile perché le storie non accadono solo davanti a noi e fuori di noi, ma anche e soprattutto dentro di noi.

Immaginazione, memoria ed esperienza 
Immaginazione, memoria ed esperienza  interagiscono e si confondono; i viaggi in queste dimensioni sono caratterizzati da cancellazioni, velature e sommersioni derivanti dal non riuscire a ricordare e ciò determina il travisamento e l’equivoco; si esaltano quelle che Deleuze definisce le potenze del falso.
I protagonisti delle storie di Ahtila sono tutti fatti di memoria e immaginazione ecco perché sono contemporaneamente infanzia e adolescenza, vecchiaia e maturità. Allo stesso tempo sono sempre qui, altrove e in nessun luogo; la condizione perenne di dubbio inficia l’univocità della loro individualità e la disintegra e così non sappiamo mai con precisione chi è che parla e di cosa si parla. I personaggi sono spesso i narratori della storia e ciò dovrebbe garantire loro veridicità e autenticità, ma cessano di essere una sola persona per assumere identità camaleontiche e multiple. Spesso l’artista scandinava mette in scena il meccanismo della memoria e dell’immaginazione ricorrendo all’essere sommerso.
In Gray e in Consolation Service propone dei discorsi liberi indiretti subacquei che costituiscono degli “a parte”, dei segmenti in cui, grazie all’effetto rallenti, tutto è quasi bloccato e inserito nel buio dello schermo. Il nero inteso come assenza di colori, va qui visto come assenza di tempo perché i discorsi pescano nel passato ma investono sul futuro sollecitati dalle contingenze presenti. Per forza di cose, dunque, la struttura narrativa dei “drammi” è sempre di tipo circolare senza esordio e senza epilogo ed ogni volta ci troviamo in media res.

Il sogno 
Il tema dell’ambiguità e l’incertezza della datità permette di affermare che le opere di Ahtila sono una miscela impeccabile di realtà e sogno. Proprio nei sogni, infatti, si registrano condensazioni e spostamenti di informazioni che rendono lo spazio e il tempo complesso, simultaneo e multiplo. Pensiamo alla stanza in cui si trova la protagonista di Okay che ad un dato momento diviene un’altra inspiegabilmente. E’ possibile poi che a tutti i singoli avvenimenti si associ una gamma di soluzioni e variazioni incomparabilmente più ampia di quella che in genere la logica tradizionale individua. All’interno della dimensione onirica la consequenzialità si lega ancora alla casualità però tollera più possibilità che solo agli sprovveduti suonano alogiche perché il fatto che si astraggano da formule e schemi prescritti ne esalta la consequenzialità e quindi la logica interna.
Le immagini sovente si susseguono come dei flash accavallandosi casualmente e tutto ciò, unitamente ai cambi improvvisi di angolazione, costituisce una serie di “errori” di continuità spazio-temporale che farebbero rabbrividire i cultori della sequenzialità di stampo hollywoodiano. In Consolation Service la percezione sensibile della narratrice, che guarda dalla finestra, è affidata a classiche panoramiche intervallate, però, apparentemente in maniera inspiegabile, da primi piani che generano discontinuità. Ciò vuol dire che le due dimensioni, quella del reale e della fantasia, si sovrappongono e contemporaneamente noi possiamo stare vicino alle cose (immaginandole) e lontano dalle stesse (semplicemente osservandole). Alla stessa stregua anche l’effetto eco, per quanto concerne la musica, permette di percepire i suoni a più livelli. Qualsiasi cosa non è data effettivamente nella percezione ma ripresa e rielaborata, ricostruita e riconfigurata dall’immaginazione. Essa pare avere la stessa, se non superiore, solidità della realtà: è il caso in cui la ragazzina di Today guarda nel futuro distante parlandone con la certezza e la consistenza del dato di fatto.
Molte volte l’elemento sognante è reso esplicitamente: i corpi nudi, lucidi e fantasmagorici in Today , la materializzazione di J-P in Consolation Service ad opera di tanti piccoli pixel… Gli effetti speciali scopertamente rudimentali, ci fanno prendere coscienza dell’inconsistenza della natura della “normalità”: basta poco per uscire fuori dal mondo empirico producendone uno sui generis a questo contrapposto. Il disporre di tempo, spazio e casualità a piacimento rende evidente l’arbitrio che è in queste categorie e sfata il mito della loro inevitabilità. Se la musica contrae o dilata il tempo, se le immagini piegano gli spazi uno sull’altro, si concretizza la possibilità per cui le cose potrebbero anche essere diverse da come appaiono e quindi possiamo raccontarle in maniera differente. La finzionalità apertamente mostrata funge così da canale immaginativo. Alla base c’è la volontà polemica di disvelare l’inganno a cui siamo sottoposti dai media e in particolare dalla televisione che ci fa vivere tutti in una grande fiction incapaci ormai come siamo di guardare oltre i limiti di un visibile fasullo. Tutte le inverosomiglianze che costellano le opere di Ahtila suonano chiaramente anti-illusionistiche, fanno propria l’istanza di un’arte autoriflessiva che sappia rivelare i criteri della propria costruzione onde stimolare la riflessione.
Se la realtà mostrata, come in un sogno, somiglia a quella ordinaria ma non lo è, vuol dire che ogni cosa è racchiusa in un alone di mistero e la macchina da presa assume una duplice valenza: descrive e racconta, afferma ed interroga. Ahtila è attenta ad evocare piuttosto che rivelare il mistero che è sempre non completamente svelabile e così facendo si distanzia da una costruzione di tipo drammaturgico come può essere, ad esempio, quella di Bill Viola il quale attraverso il montaggio gioca sulla rivelazione, l’avvenimento, l’attesa di ciò che è un continuo divenire. In Ahtila si approda sempre ad una verità che non coincide con la rivelazione di quei segreti di cui son piene le sue storie; c’è sempre qualcosa che va oltre, connota il particolare e si rifà alla profondità della condizione umana. La chiarezza consueta viene messa al bando, ciò che è chiaro è accessibile e costituisce ciò che è conoscibile, conosciuto. Ahtila vuole invece indagare le profondità del pensiero che aspirano all’emersione, che si presentano a noi sempre in nuove concatenazioni e connessioni che ci permettono di salvaguardare la capacità di improvvisare aperture di senso e annodare suono, movimento e immagini in una cifra immaginativa.

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